Impossibile fermare le onde: infinitamente si dondolano sospirano viaggiano corrono urlano.
Impossibile vivere il momento, semplicemente perché il momento non esiste: ogni attimo include quello passato e quello che verrà appena dopo.
Come onde viviamo in un flusso continuo: si vive NEL moVImento.
Non siamo eterni, però siamo fatti di eternità.
La stessa eternità di cui sono fatte le parole, le immagini, la musica.

IO TI VEDO



Io ti vedo.
Nichilizzato
in un sol boccone
da uno specchio vorace
che prima inghiotte, poi frantuma,
ti sframmenti
in litri di pietruzze taglienti,
che tracanni a sorsi ansiosi.
Arde la gola, atrofizzata 
dall'ammasso vetrigno,
dall'incolore grumo
che scende e si fa liquido.
Fluisce ora adagio
il tuo vivo Cocito,
come fosse in processione...
Finché dritto poi non sfocia
nel mar di Male.

É li che tu stai.

Io vedo nei tuoi occhi
quel plumbeo specchio d'acqua
in cui disperso
stai affogando.
Implacabili onde gigie
riflesse in due oblò:
chissà il frastuono
che ti tocca sopportare…
Da qui non lo si può sentire,
ma io so
che assorda la tua mente
quella voce sghignazzante
che spietata ti urla in testa.
Lascia che si plachi la tempesta
che ti agghiaccia e ti paralizza.
Lascia sfogare il tuo dolore
e non dimenticare che il sole
non muore.



RITRATTO INTERNO DI UNA PECORA NERA


Fisso la scena: la macchina da presa dei miei occhi mi dà inquadrature panoramiche, ogni tanto indugia sui dettagli, ogni tanto si appanna, perché qualche lacrima non si trattiene, scivola e precipita giù.
Il mio umore cambia insieme al tempo, figuriamoci oggi, in questa giornata di cielo lunatico e imprevedibile: é il mese d'aprile, ma fuori un vento gelido, degno di un inverno nevoso, più che di una primavera ormai piena, avvolge gli alberi, portando via con sé qualche foglia morente insieme alla polvere delle strade.
Cammino ora lungo i viali, questi viali sempre uguali, e lunghi, e noiosi, e pieni di gente senza espressione e vuota di vita. E come ogni volta, conto i minuti che impiego a percorrerli, con la speranza utopica di metterci sempre meno tempo, come se la strada si possa accorciare, o le mie gambe si possano allungare.
Il cielo, di un azzurro slavato e stanco, si riempe a tratti di accozzaglie di nuvole spumose, bianche e gonfie, che sembrano fatte di panna montata. Come sarebbe bello poterle mangiare...
Si muovono e cambiano forma a una velocità incredibile, si direbbe che siano proprio impazienti di continuare la loro corsa senza meta e di lasciare il posto alle altre che già varcano l'orizzonte.
Il sole è timido, così timido che preferisce rifugiarsi dietro le nuvole, ed uscir fuori solo in qualche attimo di improvvisa euforia, per poi tornarsene al riparo dagli sguardi estranei di quei minuscoli esseri simili a insetti, incomprensibili e insensati, che da laggiù attendono sempre con ansia la sua uscita allo scoperto.

Viaggio in un alone senza spazio né tempo, in cui ogni individuo che mi passa accanto non è che un riflesso di me, ma al tempo stesso una rappresentazione della mia coscienza unica e sola: in altre parole, vivo in un conflitto perenne tra empatia ed apatia. L'empatia è lo sfondamento delle maschere che ognuno di noi indossa, la penetrazione nell'altro, l'oltrepassamento di quelle barriere create da nient'altro che la nostra mente. L'apatia è invece una brutta bestia: ci rende prigionieri di noi stessi, bloccati e intrappolati nel nostro corpo-trincea, incapaci di Vedere, Toccare, Sentire; è una tensione irriducibile tra volere e potere, pensare e fare, potenza e atto, mente e corpo, interno ed esterno. Come un coltello che trafigge la carne, così il mondo esterno a volte affonda con irruenza la sua lama nella nostra pelle.
Sartre ha scritto che l'inferno sono gli altri, e aveva ragione: è lo sguardo estraneo che uccide, quello sguardo che ci coglie di sorpresa, ci sconvolge, ci giudica ma raramente ci penetra, nonostante spesso ci annienti. Vorrei uno specchio per guardarmi in modo limpido e trasparente così come vedo e sento il mio corpo, e mostrare a tutti questo specchio con la mia immagine interiore... Uno specchio, per riprendermi la mia identità, invece degli sguardi estranei, che me la tolgono.
Esiste forse una realtà empatica tra le infinite realtà possibili, o è solo utopia? Una realtà dove l'altro non corrisponda all'estraneo, ma in cui l'alterità diventi lei stessa condizione di possibilità della nostra felicità? Vago ancora alla ricerca di questo Eden in terra, non mi accontento di soluzioni di ripiego, non voglio scegliere il male minore.

Perdendomi in tali fantasie, sono nel frattempo arrivata alla destinazione di questo tragitto, ovvero verso la fine di questa pagina, accorgendomi solo a questo punto che per la prima volta ho percorso i viali smettendo di contare i minuti che mi ci son voluti a farlo. Così mi rendo conto di come ogni pensiero sia analogo al passo di un piede, di quanto questa successione di lettere si trasformi in una passeggiata che tante volte ho fatto in vita mia, ma ogni volta in modo nuovo, e di quanto il tempo cronologico e misurabile sia solo una delle tante invenzioni umane per portare ordine e senso logico in questo nostro mondo imperscrutabile, che si fa beffe di quelli che già di per sé sono scherzi della natura, ovvero noi esseri umani.
In ogni caso, come sarebbe migliore l'esistenza senza orari stabiliti... Niente ritardi, niente anticipi...Niente lancette che mettono fretta al nostro agire... Niente tempo che scorre, ma solo il tempo che occorre.

05/01/15, CATARSI


Scorgo un'oasi di pace
nel deserto mortifero 
di un gennaio che soffoca.
Un sole generoso fa capolino 
sul quadro in movimento 
appeso alla parete.
Ingorda e delirante,
assalgo la finestra,
questa tela di Fontana
di cui squarcio il taglio:
trapasso il muro di vetro,
che separa il pulviscolo
torbido e consumato
dall'aria intrisa di vita là fuori.
Come immersa in una vasca 
di putrido stagno,
nuoto fino in superficie,
rigettando ghignanti tossine,
in cambio di ventate 
di raggi profumosi.
Labbra socchiuse, 
sotto languidi occhi,
si lasciano prendere e carezzare
da questa brezza
impregnata di rose.
Al fine, sature d'amore
avidamente ingurgitato,
si abbandonano
a un sospiro orgasmico,
prima di riunirsi in un sorriso
di meritato riposo.

RITRATTO ESTERNO DI UNA PECORA NERA


La pecora nera siede sulla panchina, il lampione la illumina.
Davanti a lei pecore bianche scorrono, come fiumi in piena.
Prese dai loro pensieri inutili, dai loro futili impegni, sono immerse nella nebbia.
La luce del lampione non infonde in loro il suo calore.
Dalla sua postazione privilegiata, ma stranamente del tutto ignorata, la pecora nera osserva:
loro fissano il vuoto, lei fissa loro. Loro corrono, frenetiche, lei sta, immobile.
Loro vanno, lei resta.

La pecora nera sogna, ma è sognando che vive. Ed è vivendo che sogna.
Sogno e realtà sono per lei unica dimensione, perfetta simbiosi.
L'illusione è ciò di cui la sua realtà ha bisogno, ma è del reale che la sua illusione si alimenta.
Non ha bisogno di viaggiare: ci pensa la sua mente a farlo, alla velocità della luce.
Viaggi vaghi, ma al tempo stesso chiarissimi, così confusi, ma anche così intensi...
Immensi.
Talmente immensi, che a volte si schiantano contro l'albero della realtà.

La pecora nera vive da straniera. 
La potenza della sua immaginazione non corrisponde a un'abilità nell'azione:
illusa dalle sue stesse utopie, si ritrova impotente e insofferente, in un mondo che non le appartiene.

A disagio si sente in mezzo alla folla. Fannullona tra chi fa, inetta tra chi è retto, apatica tra chi è simpatico...
Ecco allora, che l'accidia la prende, e solo melanconia sprigiona la sua mente.